martedì, febbraio 06, 2018

STANLEY TUCCI RACCONTA ALBERTO GIACOMETTI: L’ARTE AL CINEMA


“Final Portrait” è la quinta ed ultima creatura cinematografica di Stanley Tucci che il 5 Febbraio ha presentato davanti ai giornalisti romani in occasione dell’anteprima per la stampa.
Stanley Tucci  - a dispetto dell’attore hollywoodiano che incarna - si è mostrato sin dall’inizio disponibile alle domande formulategli e soprattutto ha rivelato un grande desiderio di spiegare le motivazioni che lo hanno spinto a girare un film su un artista. E per giunta su un artista così particolare quale è stato Alberto Giacometti. Per portare l’Arte al Cinema.
Tucci  ha evidenziato in primis che non ha voluto montare un cd. biopic: non si tratta infatti di una vera biografia di Alberto Giacometti, bensì del racconto di un pezzo, di un particolare della sua vita e precisamente della creazione del suo ultimo capolavoro: un ritratto all’intellettuale e scrittore americano James Lord.
 “Mi sono voluto occupare più dei dettagli di un unico episodio della sua vita che della sua intera vita, anche perché sono proprio i dettagli che rivelano l’universale del pittore”: con questa frase Stanley Tucci evidenzia l’amore che lui stesso ha per l’arte e per la stessa vita dell’artista Giacometti che conobbe e del quale divenne amico.
Tucci si è infatti a lungo documentato sulla vita dell’artista anche attingendo alla Fondazione Giacometti, così come si è lungamente documentato il protagonista Geoffrey Rush che – come sostiene il regista – è stato a lungo a studiare “l’uomo Giacometti” per poterlo poi rappresentare in scena. Ed è straordinaria la somiglianza tra artista ed attore.Alberto Giacometti Photo
Giacometti era infatti un uomo simpatico e spiritoso e molto comunicativo (“talkative” nella descrizione del regista), ma fuori dal suo atelier, in quanto quando lavorava passava da stati di tranquilla laboriosità a successivi stati depressivi catatonici nei quali distruggeva tutto ciò che sino a quel momento aveva creato.
L’ossessione dell’artista viene rappresentata egregiamente da Rush così come il concetto di arte come qualcosa di perennemente incompiuto ed in continua trasformazione per poi, forse, non giungere mai a conclusione. Ma Tucci precisa - a domanda dei giornalisti se l’obiettivo dell’artista sia la continua ricerca della perfezione – che l’arte non deve essere perfetta ma credibile veritiera (“not perfect but truthful”): l'incompiutezza è nella natura dell'arte. Lo sapeva secoli fa Michelangelo (i suoi Prigioni” ne sono un esempio significativo) e ne era altresì convinto Alberto Giacometti che spese la sua vita a fare e disfare i sui capolavori perchè “per fare qualcosa occorre disfarlo”.
L’ossessiva ricerca della compiutezza si manifesta proprio nei 18 giorni di posa del “modello” James Lord,  interpretato da Armie Hammer , 18 giorni passati nell’atelier dell’artista a sopportare i suoi frequenti sbalzi di umore.

Lo spettatore è immediatamente sbalzato lui stesso all’interno dell’atelier, accanto a Rush e Hammer  al punto che sente le stesse emozioni e le medesime angosce dei protagonisti.
Tutte le scene sono state girate con due camere a spalla – prosegue il regista – e questo proprio per fare partecipare emotivamente il pubblico, per farlo letteralmente “entrare in scena”, nonché per dare movimento alle scene stesse che, altrimenti sarebbero risultate troppo fisse e statiche atteso che la maggior parte di esse si svolge proprio e solo nell’atelier di Giacometti.
Image result for Geoffrey Rush in final portraitIl regista continua a parlare del rapporto – scontro tra i due protagonisti: da una parte, il creativo e maniacale, nonché depresso cronico bipolareGiacometti e, dall’altra, l’elegante borghese yankee, intellettuale americano James Lord che si affrontano e si scontrano come in una seduta psicoanalitica tra analista e paziente.
E il ritratto? Tucci sostiene che era stato tentato fortemente a non mostrare mai il ritratto nel suo film proprio per rafforzare l’idea di incompiutezza e di magia dell’arte stessa, ma confessa che non se l’è sentita perché forse lo spettatore non lo avrebbe compreso.
Il regista si ispira ed allude ad uno specifico precedente che - come ricordato da uno dei giornalisti in sala a Tucci, è rappresentato da un film tratto da un’opera di Honorè de Balzac dal titolo “Il capolavoro sconosciuto”. Stanley Tucci ricorda allora che il film è “La bella scontrosa” (La Belle Noiseuse) del 1991 diretto da Jacques Rivette. E in quell’opera cinematografica il ritratto dell’artista non viene infatti MAI mostrato al pubblico in nessuna scena proprio per aumentare il clima di mistero e magia legati intorno al lavoro dell’artista stesso in genere.
E il ruolo delle musiche? Stanley Tucci a domanda risponde che per lui le musiche devono in un film avere un ruolo di mero contorno e mai togliere la scena e la supremazia alla storia ed alle immagini stesse. Il film si apre con il suono di una fisarmonica perché Tucci spiega che ci vuole illudere di entrare nella classica atmosfera bohemienne parigina, per poi prenderci praticamente in giro, quando poi, di fatto, ci fa atterrare nell’atelier sporco e disadorno di Giacometti per farci vivere le stesse sue angosce momento dopo momento durante la creazione del ritratto.
Da ultimo, alla domanda se il regista abbia voluto trasmettere un giudizio etico su Giacometti e la sua vita privata fuori dagli schemi borghesi, Stanley Tucci spiega che l’etica nulla ha a che fare con l’arte e con la vita di Giacometti che ha voluto rappresentare. Giacometti, per Tucci che lo conosceva bene, era un artista che voleva vivere come un  bambino cresciuto (“like a child grown up” come dice Tucci) e ci riesce proprio grazie ai ruoli ancillari ed al suo perenne servizio che fa ricoprire sia al fratello che alla moglie (Annette Arm) per tutta la loro vita. Lui come regista non intende pronunciare alcun giudizio etico sull’artista che, in fondo, è stato così grande anche grazie al supporto di una moglie che – nonostante tutto – ha ricevuto soddisfazioni dal ruolo ricoperto.
Uno Stanley Tucci simpatico e aperto al confronto e- impensabilmente – capace di comprendere la lingua italiana a volte anche senza l’aiuto della traduttrice, come, a dir la verità, ben poche volte ci capita  di constatare con attori e registi di lingua anglosassone.
Michela Montanari

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