sabato, dicembre 30, 2017

A GRAY STATE


A Gray State
di Erik Nelson
USA,'2017
genere, documentario
durata, 93'




Minnesota filmmaker David Crowley had a vision for America
He called it "Gray State"
(dal trailer di "A Gray State" di Erik Nelson)



Per capire meglio cosa significhi fare un film come "A Gray State" è indispensabile una premessa che ci porta a parlare di Werner Herzog e del suo "Grizzly Man", documentario incentrato sulla parabola esistenziale di Timothy Treadwell, capace di rischiare la propria incolumità pur di condividere spazi e abitudini del pericoloso animale. Se la smodata passione di Treadwell forniva al cinema di Herzog lo spunto per riappropriarsi dell'ambiente d'elezione, e quindi di tornare a quello stato di natura caotico e selvaggio che ne aveva ispirato i capolavori, il punto centrale di "Grizzly Man" è - come spesso succede nel cinema del cineasta teutonico - il tentativo di rappresentare il momento in cui la ragione cede il passo all'irrazionale, esplorando il confine invisibile che separa la normalità dalla follia. 

Una lezione di cinema di cui senza dubbio Erik Nelson (produttore di "Grizzly Man" e di "Cave of the Forgotten Dreams") ha tenuto conto quando si è trattato di scegliere il soggetto del suo documentario, basato sulla vicenda altrettanto drammatica di David Crowley, veterano di guerra e regista in itinere, trovato morto nella sua casa insieme a moglie e figlia nel gennaio 2015. Facendosi messaggero della protesta del cosiddetto Tea Party, il movimento politico che, nelle teorie cospirative espresse nella sceneggiatura di "A Gray State" - il film che il protagonista cercava di realizzare - vedeva confermato uno degli argomenti di punta della suo messaggio propagandistico, Crowley era diventato una figura di riferimento della destra più conservatrice, ala politica che oggi accusa il governo americano di averlo ucciso per liberarsi di un temibile avversario. 

Come nel film del regista tedesco, anche quello di Nelson parte utilizzando una sorta di falso scopo. Nelle battute iniziali infatti Crowley ci appare perfettamente risolto all'interno di un contesto che lo coinvolge in maniera viscerale ma pragmatica, con la ricerca dei finanziamenti che procede di pari passo con le fasi di pre-produzione del lungometraggio. Le immagini lo mostrano indaffarato nella promozione del suo lavoro in un clima generale di fervore ed entusiasmo, favorito dalla fattiva collaborazione di amici e famigliari. Tutto sembra tornare nel resoconto messo insieme da Nelson utilizzando per la maggior parte frammenti girati dallo stesso Crowley, il quale, a testimonianza dell'invasività dello strumento mediatico nell'esistenza dell'uomo contemporaneo ("Grizzly Man" vi alludeva sommessamente, ma in maniera netta), teneva una specie di diario filmato comprensivo di registrazioni vocali in cui rifletteva sulla propria esistenza e faceva il punto dell'attività lavorativa. Anche la morte, improvvisa e inaspettata, sembra comunque assecondare la trasparenza del film, ponendosi in relazione con la testimonianza del seguito riscosso da Crowley e dalle sue dottrine, diventate troppo ingombranti per non trasformarlo nel bersaglio di eventuali ritorsioni da parte dei suoi avversari. Invece, come in un tutti i gialli che si rispettino, Nelson a un certo punto mischia le carte, portando lo spettatore (come faceva Herzog con Treadwell) ad addentrarsi nella personalità dell'ex militare allo scopo di far venire a galla i lati più oscuri del suo carattere. 

Ciò che ne consegue è una perdita di senso che scombina le gerarchie della narrazione, facendo prevalere il privato sul pubblico, in un confronto continuo tra lo spettatore e il protagonista, ahimè fagocitato dai demoni dell'ispirazione artistica. Ai temi che appartengono al contingente della vicenda, come quello degli effetti post traumatici dovuti all'impiego nelle zone di guerra (a che titolo se ne parla lo lasciamo scoprire allo spettatore) e, ancora, delle derive assunte da certa politica statunitense, specialmente nell'entroterra del paese, Nelson non si lascia sfuggire l'opportunità di mostrare quello derivato dai fantasmi dall'ossessione artistica, riuscendo meglio di altri a mostrare in diretta e con pochi filtri cosa accade quando è quest'ultima a prendere il sopravvento sul resto della realtà. Ma c'è di più perché, alla maniera di "Citizen Four", il regista mette a punto un dispositivo capace di trascendere la forma documentaria con una struttura drammaturgica narrativa che - oscillando tra scoperte e successive sottrazioni - fa di "A Gray State" un mistery come il cinema di finzione non riesce più a inventare. 

Distribuito dalla Netflix il film di Nelson conferma l'importanza di saper scegliere una buona storia e di riuscire a trasporla senza perdere di vista il fattore umano. Senza dubbio tra i migliori prodotti diffusi dalla piattaforma americana.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

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