lunedì, settembre 04, 2017

SAFARI

Safari
di Uli Seidl
Austria Danimarca, Germania 2016
genere. documentariodurata, 91’

Magari ha ragione Seidl. Forse noi membri del cosiddetto occidente civilizzato abbiamo sul serio superato il punto di non ritorno nella mancanza di coscienza critica verso noi stessi, presi, come sempre più siamo, in questo atroce gorgo che rimescola senza posa avidità, ferocia e apatia, secernendo infine a mo’ d’incongrua sudorazione strambi succedanei di sentimenti, sinistre simulazioni di realtà, isterismi o patetismi pressoché sempre forzati. Come ragionare altrimenti intorno a un’opera come “Safari”, costruita per sfinita accumulazione sul mastice d’una oramai collaudata e respingente imperturbabilità (passo semi-documentaristico, inquadrature fisse o leggermente sghembe, contorni netti per tonalità sbiadite, presa diretta, nessun commento sonoro) ? Stavolta l’ulteriore misura d’una degradazione cocciuta e beffarda viaggia su un meridiano esotico al seguito dell’ennesimo anonimo campionario di varia umanità teutonica - facce e corpi pingui da titolare di concessionaria, da allevatore inurbato, da piccolo proprietario terriero; o grugni smunti e quasi assenti da studente di farmacia o di discipline erariali - impegnata nel safari del titolo, consistente nell’eliminazione più o meno casuale ma, all’apparenza, in qualche modo, corroborante per la fibra e per lo spirito, di gnu, zebre, giraffe e, se ci scappa, di qualche felino di taglia grossa (tranne il leopardo perché “è bello e ne sono rimasti pochi esemplari”).
Seidl tampina i suoi uomini-massa senza alcun altra storia che non sia la piatta aneddotica del loro potere d’acquisto, ossia l’indifferenza a volte assertiva, altre irriflessa, con cui infliggono sé stessi all’Altro (ambiente, forme di vita, autoctoni), riservandogli il medesimo trattamento nella persistenza di sguardo d’un occhio impassibile ma attento e preciso nel cogliere le sfumature crudeli nascoste nell’inerzia più amorfa, quindi tanto in superficie impersonale quanto nel profondo, se vogliamo,morale, perché impietoso nel ribadire i propri stessi limiti di aderenza a un vero che da tempo non abita più i gesti d’un folto numero di esemplari sapiens, assorbito dall’egoismo irresponsabile dei suoi rituali (qui l’erotismo d’accatto dell’uccidere); dalla monotona auto-assoluzione che filtra dalle sue parole, come dalla convinta compunzione fatta precedere a ogni singolo scambio di congratulazioni per il bersaglio appena inseguito e centrato. Sempre a cavallo del confine insidioso tra programmaticità refertale e istantanea autoptica, l’autore di “Canicola” e del trittico del Paradiso scaltramente asseconda il suo bestiario umano-troppo-umano mentre discetta - in genere seduto o sdraiato al sole su qualche comoda chaise longue - riguardo la propria attività preferita (“Ammazzare animali ? Sì, in effetti, è ciò che facciamo”. O anche: “Ti sei battuto bene, amico mio”, dice un tale allo gnu appena freddato), acconcia in posa la preda soppressa per un paio di scatti fotografici o distribuisce sottovoce, ma con una qual perentorietà, ordini alle maestranze locali ancora e daccapo nell’oleografico ruolo di servi solerti/silenti, per congelarlo - a camera frontale - per manciate di secondi espansi a intervallare le battute di caccia, in irrituali e improbabili polittici in movimento caratterizzati da mobilio minimo e da enormi trofei imbalsamati alle pareti, divinità dissacrate al tempo incombenti e perplesse, sullo sfondo d’una Natura e d’un Paesaggio mai stati così muti e ostili.

Tutto, cioè, sembra avvilente-e-normale nel cinema di Seidl, come se il progressivo svuotamento di senso di legioni di esistenze ordinarie e anodine avesse condotto a una sorta d’assuefazione definitiva entro cui spicca la predilezione per il vacuo e il sanguinolento (si noti la contemplazione reiterata e inespressiva successiva all’uccisione di una giraffa - e tacendo i dettagli della sua dissezione -), in ragione d’un primitivismo deforme in base al quale il selvaggio del luogo (echeggia anche qui l’arcinoto andante: “Non è colpa loro se sono neri”) scuoia, squarta e appende la carcassa d’un animale (quasi un’anamorfosi rembrandtiana), ne separa le parti molli dalla pelle, ripiega e confeziona quest’ultima tipopaletot per il colonialista del denaro e del turismo planetario di turno, per poi cibarsi delle parti dure scartate dalla macellazione, in una paradossale, anacronistica ma concretissima catena di (s)montaggio e del riciclo che, come insegna la logica del Capitale, non conosce tregua e, soprattutto, oggi come oggi, non concede più quartiere.
In questa scheggia terminale d’approssimazione alla Fine c’è persino spazio, nell’immobilità ominosa di una notte tropicale, per aurore interiori inclini a un’inopinata resipiscenza (“Se sparissimo, al pianeta si farebbe solo del bene”), sebbene, allo stato attuale dei fatti, nessuno saprebbe più dire quanto di esse risponde a un desiderio residuale di riscatto e di riappropriazione di sé e quanto invece tende comunque ad assecondare un mero automatismo tarato sulla voluttà dell’oblio. Perché aveva visto giusto Longanesi notando, osiamo presumere con doloroso disincanto, che quando potremo dire la verità, l’avremo dimenticata. E, aggiungiamo, probabilmente, sarà troppo tardi.
TFK

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