venerdì, settembre 02, 2016

LA FAME DI BEHEMOTH

La fame di Behemoth



Breaking' rocks in the hot sun
I fought the Law and the Law won
I fought the Law... and the Law won
- The Clash -


Le transizioni sono esasperanti. Non sono tarate - almeno quelle storiche e sociali - sui minuscoli parametri predittivi di un'esistenza media, cosicché la loro sostanza, di per sé fluida, si fa ancor più sfuggente all'occhio parziale del singolo. Questo, poi, riavvolgendo ogni volta, nel tentativo di orientarsi, il bandolo di una matassa che - al contrario - non cessa di srotolarglisi innanzi, rischia quanto meno di ripetersi, spesso fino a fraintendere quel poco che riteneva di aver sintetizzato alimentando vieppiù, d'altro canto, il mai del tutto fugato sospetto circa l'impossibilità pratica di venire davvero a capo di qualcosa. Essendo però, nel caso, il campo d'applicazione  quello di una non così ipotetica fine del nostro modo di vivere (da intendersi come un generico collasso delle strutture e dei rapporti che tengono insieme il cosiddetto Occidente-moderno-tecno-capitalistico), circoscritto a partire dalla complicità con lo sguardo - partecipe o distante, allusivo o meramente riepilogativo - gettato da un certo numero di opere cinematografiche sulla complicata contemporaneità che costituisce pressoché per intero l'orizzonte dell'esperibile, ecco che quel gesto di travagliato e paziente recupero assume la pregnanza di una concretezza di sicuro non definitiva ma perlomeno salda abbastanza da lasciar agio per rivendicare - all'interno di una cornice e di una suggestione estetica tutt'altro che marginale al fine del radicamento di certe osservazioni - il conseguimento di talune evidenze ricorrenti al punto di avanzare la propria candidatura al rango di veri e propri punti fermi.


Indizio recente e ulteriore per lo stabilizzarsi delle predette evidenze nel caos di un'inerzia che si mostra tanto inarrestabile quanto immemore (o, forse, a questo punto, perfino ignara) delle mete che s'era prefissata, è il lavoro del cinese Zhao Liang, "Behemoth", per il tramite dello splendore triste che si diffonde dalla sue breve elegia muta (nel senso d'inframmezzata da disadorni versi ma mai parlata), in cui appaiono chiare - e giustamente crudeli - la frattura e la distanza che separano, ad oggi, l'uomo e il mondo fisico in cui egli è via via retrocesso a sopravvivere nella forma di sottoprodotto di lavorazione - se non vero e proprio scarto - del Grande Meccanismo Tecnico, giunto in pochi decenni anche nell'estremo Est alle dimensioni e all'implacabilità di una creatura biblica: Le sue vertebre, tubi di bronzo; le sue ossa come spranghe di ferro si legge, appunto, nel Libro di Giobbe (40,18) a proposito del Behemoth. Nella silenziosa desolazione di vastità immolate alla produzione e al passo parimenti nervoso e rassegnato dei ritmi di estrazione di materia prima, ossia di valore, indi di profitto, metro unico d'interpretazione della realtà o di ciò che quasi unanimemente è considerato degno di esser denominato tale (la Cina detiene vari primati per ciò che attiene alla filiera del comparto carbonifero: tonn/anno, lavorazione industriale, consumo, ricadute nefaste sull'ecosistema e sulla salute del già citato scarto. Proprio su tali numeri, sulla loro concatenazione deterministica, si concentra il film di Liang), senza esitazione si staglia, affilato e indifferente, mentre la figura umana accartocciata su se stessa cerca riparo in una posizione raccolta, semi-fetale, più implorante che fieramente protettiva, il profilo di una forza - la Tecnica - che all'affacciarsi di un nuovo millennio pare aver messo una volta per sempre all'angolo l'assunto di invalicabilità del limite ben presente, invece, alle radici di un pensiero - quello dell'inutilizzabile tradizione - acuto, per converso e a ben vedere, anche perché di fondo intriso di presaga cautela, moneta quest'ultima, è sensato chiederselo, chissà se ancora in circolazione (La Tecnica è di gran lunga più debole della Necessità, affermava Eschilo nel Prometeo incatenato).

Tra gesti ripetitivi distribuiti entro un tempo incerto, estraneo al giorno e alla notte, inclemente alla soglia di tolleranza dei corpi: un tempo così affine, per spossessamento, agli albori della Rivoluzione Industriale (e non tralasciando, in parallelo, la mutazione del rapporto con lo spazio, il territorio, il paesaggio: Tradizionalmente terra e lavoro non sono separate: il lavoro costituisce parte della vita, la terra rimane parte della natura, e vita e natura formano un insieme articolato... La funzione economica è soltanto una tra le molte funzioni vitali della terra. Essa investe la vita dell'uomo assieme alla sua stabilità, è il luogo della sua abitazione, è una condizione della sua sicurezza fisica, è il paesaggio e le stagioni - K.Polany, La grande trasformazione). Tra faticose abluzioni, in stanze scarnificate di case-loculi, che non rimuovono mai del tutto le miriadi di corpuscoli neri oramai assimilabili ad un indesiderato (e velenoso) strato di pelle. Tra peripli infiniti in labirintiche gallerie sotterranee mal illuminate e invase dall'acqua. Tra bracci di ferro agli altiforni per incanalare i flussi incandescenti in porzioni di magma fruibile. Tra incolonnamenti di mezzi pesanti pronti, come processionarie del Progresso, a convogliare la massa del prodotto finito in agglomerati urbani cresciuti a tappe forzate, disabitati e silenti sotto un cielo di un perenne grigio pulviscolare, non resta che sedere e consumare un magro pasto assorti in uno stupore vago, tra meraviglia e inquietudine, rievocando magari immagini sparse di una Mongolia del cuore, distratti ma rapiti, poco a poco, dallo spettacolo grandioso e terribile di una voracità che non ha eguali (Dalla sua bocca partono vampate, sprizzano scintille di fuoco. Dalle sue narici esce fumo, come da caldaia, che bolle sul fuoco. Il suo fiato incendia carboni e dalla bocca gli escono fiamme - Giobbe, 41, 11-13) e di fronte alla quale si può solo arretrare, come fanno esitanti, confusi, rari capi di bestiame e il verde inerme di una pianura senza speranza, apogeo e crinale simbolico di una transizione che, al di là di qualunque approssimazione, sempre più va assumendo la fisionomia di un incosciente fervore teso ad attuare la sua (e la nostra) stessa fine.
TFK 

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