martedì, dicembre 08, 2015

ABACUC - INTERVISTA A LUCA FERRI


Qualche settimana fa è apparsa su questo blog la recensione ad "Abacuc", un film che si pone l'obiettivo di tornare all'essenzialità del cinema. Oggi siamo lieti di pubblicare un'intervista che abbiamo avuto l'opportunità di fare al regista, Luca Ferri.



Buonasera, Luca. "Abacuc" è il primo lungometraggio apparso al cinema, ma non la sua prima esperienza. Ci racconta qualcosa di ciò che l'ha preceduto.

C'è tutta una filmografia, nata tra gli anni 2002 e 2011, che ormai non mi rappresenta più. Nel 2011, poi, c'è stata la svolta, con la presentazione a Pesaro di "Magog". Da lì tutti i lavori hanno riferimenti linguistici maturi, più allineati al mio modo di scrivere. È stato un lavoro lungo, che ha comportato 4 anni di riprese. È stato molto complesso: mi sono occupato di tutto completamente da solo, dalla messinscena alla fotografia.


Dunque si può dire che rinnega parte della sua produzione passata.

In quella produzione ci sono elementi che ritornano, ma non c'è la conoscenza del mezzo cinematografico e l'idea di cinema portata avanti da "Magog" in poi. Sono esperimenti che non fanno riferimento al concetto di "testamento" e che, quindi, non si confrontano con il tema della morte, nettamente presente solo da "Magog" in poi.

Da cosa deriva la sua scelta di fare un cinema incentrato sulla morte

L'idea nasce dal fatto che non si può non pensare alla morte. Poi tutto il mio cinema è comico, anche questo tema è affrontato con ironia. Il mio cinema trae spunto da altre forme d'arte: letteratura, architettura, musica.

A proposito di questo, in "Magog" il riferimento è a "Gog e Magog" di Giovanni Pascoli.

No. Il riferimento è a Giovanni Papini, che ha scritto un'opera intitolata "Gog". Lo ritengo un autore straordinario, la cui opera contiene passaggi strepitosi. Papini ha avuto una vita molto attiva, nell'ultimo periodo è diventato anche cristiano. 

Il suo cinema, quindi è colto. Nel pensarlo, aveva in mente un target specifico a cui rivolgersi.

No, non è rivolto solo alle persone colte. Sono riconoscente al critico Giulio Sangiorgio, che ha dimostrato che il problema non è il pubblico, ma l'idea di pubblico che i selezionatori hanno. "Ecce Ubu" e "Curzio e Marzio", ad esempio, sono stati colti nella loro essenza anche dalle persone più umili.

Quindi non c'è il pericolo di essere fraintesi

Ovviamente ci sono vari livelli di lettura: se si riconosce la presenza di Donizetti in "Abacuc", per esempio, passa qualcosa in più, ma si può comprendere la mia opera anche senza cogliere le citazioni. La citazione è un aspetto anche comico. Utilizzo autori per lo più obsoleti, ma molto comici.


Quindi non ci sono difficoltà a far accettare al pubblico questo tipo di cinema. Immagino, però, che sia abbastanza complicato fare tutto da solo, senza molti aiuti.

È chiaro che comporta grandi sacrifici e un grande coinvolgimento da parte dell'autore. I miei film sono stati fatti con poco: per lo più senza budget. A volte, un certo tipo di cinema deve vedere il limite come un'opportunità. Non bisogna scoraggiarsi: si può fare molto anche con pochi mezzi.

A proposito di mezzi, gli strumenti e le tecniche adoperati nella sua produzione, in "Abacuc" in particolare, sono quelli del passato: da cosa deriva il desiderio di tornare alle origini del cinema. 

Nella mia opera "Habitat Piavoli" si parla esplicitamente della necessità di tornare a un linguaggio precinematografico. Credo che ci siano ancora aspetti legati allo stupore per il mezzo che valga la pena approfondire.

Quindi questo è solo l'inizio.

Sì: l'idea è di fare, da qui in poi, un cinema che non vuole sedersi. Non bisogna accontentarsi, per non rischiare di finire etichettati.


Ritiene, dunque, riduttivo incasellare il suo cinema in uno specifico genere. 

Forse è cinema di genere, forse tutto il cinema è di genere. Ma il mio cinema è un continuo rimettersi in gioco. Poi, naturalmente, qualcosa in comune c'è. Da "Magog" a "Una società di servizi" ci sono undici lavori, che hanno tutti qualcosa in comune. 


Un'ultima domanda, per concludere, sulle collaborazioni con Dario Agazzi e Lab80. Può raccontarci come sono nate.

Agazzi l'ho conosciuto tramite un mio libro, "Fiori di broca", che lui aveva letto. Lab80 è una realtà territoriale di Bergamo molto importante: ha un grande coraggio. Mi permetto di aggiungere, tra le varie collaborazioni, una realtà di Bologna: Nomadica. È un circuito autonomo di registi significativi, anche internazionali, gioco forza esclusi: Bruno Munari, ad esempio. Poi ci sono collaborazioni saltuarie, tra cui quella con Enrico Mazzi, insieme al quale ho condotto un ultimo lavoro a Torino.
Riccardo Supino

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