venerdì, gennaio 02, 2015

JIMMY'S HALL

Jimmy's Hall
di Ken Loach
con Barry Ward, Simone Kirby
UK, Irlanda, Francia
genere, drammatico
durata, 109' 
 
 
 
James 'Jimmy' Gralton/Ward torna, agli albori degli anni Trenta, nella natia Irlanda - Contea di Leitrim - dopo un decennio trascorso in America, dove ha avuto modo di saggiare di quel paese tanto la consistenza delle promesse, quanto la durezza dei tradimenti. Riguadagnata casa, riprende ad occuparsi della terra di famiglia e dell'anziana madre Alice/Henry; ritrova Oonagh/Kirby, indimenticato amore, oramai sposata e madre ma, in particolare, riaccende le speranze di cambiamento e di apertura al mondo di un'intera comunità, nel momento in cui si lascia persuadere a riaprire la "Pearse-Connolly Hall" - sorta di enclave libertaria in cui ci si può riunire per suonare, ascoltare musica (anche il jazz d'importazione), cantare, danzare, leggere, scrivere, boxare, dipingere, ricamare, et. - tra i motivi - visti i contrasti creati dalla presenza del sodalizio, giunti col tempo a farsi aspre divergenze di natura politica (su Gralton aleggiava l'accusa di comunismo, circostanza che aveva coalizzato all'istante le forze conservatrici fedeli alla Corona Britannica, da un lato, e l'establishment cattolico, dall'altro) con le autorità, che in esso vedono un potenziale elemento di disgregazione sociale, un'insidia al proprio primato nonché, in prospettiva, un pericoloso precedente - che lo indussero all'esilio forzato oltreoceano.

Jimmy, nonostante tutto, col sostegno degli amici di sempre e, soprattutto, di quello delle nuove generazioni, gioca le sue carte dando ancora vita all'antico sogno, sollecitando, di fatto, i nervi scoperti di questioni mai risolte, anzi, ancor più esacerbate a seguito della Guerra Anglo-Irlandese (la povertà estrema di contadini e artigiani; l'appoggio delle istituzioni, leali al governo di Londra, ai grandi latifondisti; l'atteggiamento ambiguo della Chiesa Cattolica, più preoccupata di mantenere un ruolo di mediazione - a dire, una salda voce in capitolo in materie non solo spirituali - che del benessere materiale e morale del suo gregge), che evolveranno inesorabilmente fino al pretesto che segnerà l'ultima, sebbene non rassegnata, separazione.

Loach, assieme al vecchio sodale Laverty, recupera da una pièce teatrale la figura storica di James Gralton e la consegna alla propria galleria di personaggi (non di rado irlandesi) tanto illuminati e, nel caso, gentili, quanto indomiti e allergici ai soprusi. Se l'intento e' lodevole - o anche solo interessante - l'insieme che ne scaturisce e' invece molto meno convincente della somma di alcune sue parti. E ciò in ragione di una qual stanchezza di fondo che percorre l'opera e la irretisce in un didascalico dipanarsi di situazioni potenzialmente calde (la riapertura della sala contro tutto e contro tutti; l'attrito a contatto con le prepotenze del Potere e una fin troppo insistita ottusità delle gerarchie ecclesiastiche; l'impossibilità di un amore che ha perduto la magia del suo momento, et.), giustapposte come mere istantanee esplicative e aneddotiche, le quali, ed e' fatale, smarriscono via via nerbo e fascino nella loro diligente eppero' anodina riproposizione. In altre parole, ciò che si svolge davanti agli occhi e', più o meno, un glossario resistenziale che si limita a catalogare, da lontano, in vitro quasi, buona parte dei nuclei contenutistici ed estetici cari al Cinema del vecchio Ken: la classe lavoratrice con i suoi slanci e le sue contraddizioni; la necessita' di prendere coscienza della propria condizione; il diritto ad esprimere liberamente se stessi, i propri desideri, i propri talenti; guardare in faccia il Potere, opporsi ai suoi abusi e diffidare delle sue lusinghe e via così..., ora, pero', con qualche zavorra in più (tirata anti-capitalistica in pillole inclusa) e qualche freccia all'arco in meno (l'ironia, lo sberleffo e la furia anche autolesionista di tanti eroi proletari in altrettanti film).

Resta lo splendore fiabesco della campagna irlandese dalle cui dolcezze riecheggia Yeats, qui con la sua "The song of the wandering Aengus". Resta la leggerezza senza tempo di ragazze e ragazzi impegnati nelle danze tradizionali. Restano i capelli tenuti corti sulla nuca meravigliosamente scarmigliati dal vento del Nord. Così come i visi chiari e veri di uomini e donne di un recente passato che allo sguardo distratto di oggi appaiono simboli criptici di un mondo immaginario. Ma tutto questo, come si dice, e' un altro discorso.

TFK

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