mercoledì, dicembre 10, 2014

MOMMY

 Mommy
di Xavier Dolan
con Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément
Francia, Canada, 2014
genere, drammatico
durata, 140' 


Dopo "I Killed my mother", Anne Dorval —ormai consacrata al ruolo genitoriale femminile per il regista canadese Xavier Dolan—  interpreta Diane Déspres, madre vedova di Steve (Antoine-Olivier Pilon), adolescente affetto da deficit di attenzione (ADHD) e da un iperattivismo che non gli consente di limitare e frenare la propria potenza, portandolo spesso a compiere azioni di cui finisce poi, riacquisita la lucidità, per pentirsi.
Come Diane spiega, la vita con Steve è un salto nel vuoto: non si sa mai se si cadrà in piedi o ci si sfracellerà al suolo; farlo significa vivere con la consapevolezza che è solo questione di tempo, sapendo che presto combinerà qualcosa di veramente grave.

Lui, carismatico e manipolativo, violento e sessualmente provocatorio, protegge la madre, che è al tempo stesso il suo mondo, la sua donna, porta di accesso all'universo e fonte di infinita protezione.
Lei, volgare e vitale come il figlio,  lavorativamente — e non solo— disagiata, passa le sue giornate pulendo case altrui e traducendo libri per bambini.
Sotto quintali di cipria e vestiti imbarazzantemente volgari si nasconde una donna forte e temprata dalle disavventure che la vita ha sempre in serbo per lei, come un incidente d'auto nella prima scena del film ci fa intendere.
Persi nel loro amore i due vivono in una dimensione tutta loro, impenetrabile agli "altri", codificata da un vocabolario e una liturgia del quotidiano che difficilmente potrebbe essere compresa da terzi.
Della loro Versailles —come Die definisce la catapecchia tutta carta da parati in cui vivono— i due sono i regnanti e il mondo, con le sue regole e la sua politically correctness, è loro nemico.
Si odiano e si amano, sono l'uno vittima e carnefice dell'altro.

A liberare temporaneamente i due da questo lento gioco al massacro sarà Kyla (Suzanne Clément), dirimpettaia balbuziente in anno sabbatico per motivi che ci sono solo lasciati intuire —una depressione forse?— che avrà su Steve un effetto calmante e palliativo.
Presto fra i tre verrà a crearsi un'inaspettata alchimia che consentirà loro di liberarsi dalle proprie catene e passare insieme momenti di ordinaria follia.

Come la scritta bianca su sfondo nero —ordinata e precisa come nulla nel corso della pellicola— all'inizio del film spiega, in un distopico Canada una nuova legge promulgata dal sistema sanitario nazionale offre alle famiglie di ragazzi "difficili" con gravi disturbi l'opportunità di rinchiuderli in una sorta di ospedale psichiatrico anti-Basaglia -ma non così diverso, ahimè, da come funzionano le cose anche nei nostri "moderni" ospedali psichiatrici- .
La situazione inizierà presto a complicarsi, e Die si vedrà costretta a prendere in considerazione questa possibilità, indossando i panni di Giuda.
Ma sarebbe sbagliato credere che così facendo Dolan abbia voluto renderci il ritratto di una madre passiva e incapace di dominare il figlio.
Come egli stesso disse in occasione della presentazione del film alla sessantasettesima edizione del festival di Cannes (in cui si è aggiudicato il premio della giuria ex aequo con Godard), "I don't see the point in making film about losers".
La scelta che la madre compie, latente possibilità fin dal primo frame del film, non è dettata dalla disperazione o dalla rassegnazione ma dalla speranza che un domani il figlio possa stare bene, essere guarito e condurre una vita migliore.

 

La pellicola, perturbante e rabbiosa, come il giovane Steve quando in un raptus quasi soffoca la madre, mette in discussione il sistema e le facile scappatoie che utilizziamo per relazionarci a chi è diverso da noi, specie quando l'alteritá prende la forme della "malattia" mentale : l'esclusione, l'isolamento, la pillola facile.

 

La maniacale codipendenza dei due protagonisti –una regia sopraffina non permette al complesso di Edipo di far da padrone alla scena— è resa anche grazie ad un'immagine (alla fotografia André Turpin) in formato 1:1 per la maggior parte del tempo, in cui i protagonisti sono schiacciati e sbattuti l'uno contro l'altro senza possibilità di fuga.
In quei pochi momenti in cui lo schermo si allarga, anche le possibilità diventano maggiori, gli orizzonti si ingigantiscono, e la speranza galoppa veloce fino a quando le sbarre nere chiudono a sinistra e a destra dello schermo i miserabili nella loro prigione quotidiana.
Oltre alle scene compresse che buttano la madre contro il figlio accendendo la miccia del conflitto, ottima è anche la scelta —in continuità con le pellicole precedenti del regista canadese— di cucire le immagini con un collage vintage di tracce pop e classiche, spesso e volentieri in slow motion o ad un volume così alto da infastidire, perturbare, riuscendo così a essere conturbante anche solo nella scelta musicale.

Erica Belluzzi

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