lunedì, agosto 11, 2014

FROM WHAT IS BEFORE

MULA SA KUNG ANO ANG NOON
di Lav Diaz
con Hazel Orencio, Perry Dizon, Liryc Paolo Dela Cruz
Kim Perez, Lucky Jay De Guzman
Filippine - 2014
Drammatico
338 min.

Uno dei suoi pezzi da novanta il festival di Locarno se lo gioca nella giornata d’apertura del concorso ufficiale, mettendo in gara “From What is Before” del filippino Lav Diaz, beniamino della critica militante, e punta di diamante di una cinematografia che può contare su un campione da festival del calibro di Brillante Mendoza. Attenti alla realtà storica e sociale del proprio paese, radiografate con una puntigliosità che sfocia spesso nell’indagine etnografica (The Womb)i due registi si distinguono uno dall’altro per alcune peculiarità che, nel caso di Diaz, mostrano i segni più evidenti nell’apparato formale, punto di forza e insieme spauracchio, a seconda dei casi, del nostro regista. Per constatarlo bastava dare un’occhiata alla sala in cui si è svolta la proiezione del film qui a Locarno, disertata dal grande pubblico e scandita dal progressivo diradamento di una parte della compagine iniziale. A costruire il muro di Berlino contribuivano certamente le notizie sul minutaggio fuori dal comune (338’)ma anche la consapevolezza di ritrovarsi di fronte a uno stile impervio, in cui a farla da padrone sarebbero state la predilezione per i dialoghi scarnificati, per le riprese a camera fissa e per un uso pressoché esclusivo del piano sequenza. A fronte di tanta ritrosia (anche dei produttori italiani che non hanno mai distribuito un film del regista) il rigore di Lav Diaz ha però fatto breccia tra quella fetta ristretta di pubblico e addetti ai lavori che considera il cinema come un atto di resistenza contro il modello dominante e capitalistico. In questo senso “From What is Before” ha le carte in regola per confermare la leggenda di un cinema perennemente sulle barricate e dalla parte dei più deboli, raccontando la vita degli abitanti di un remoto villaggio, colti in un momento cruciale per il destino della nazione. Siamo infatti nelle Filippine del 1972, alla vigilia della proclamazione della legge marziale, promulgata dal presidente Marcos, che restringe la libertà di un paese tenuto in ostaggio da una feroce dittatura. Lo spirito del tempo, pervaso di mestizia e di dolore, si manifesta attraverso una serie d’eventi misteriosi e drammatici (come accadeva ne “Il nastro bianco” di Haneke) che si riversano su un mondo messo a dura prova da condizioni di vita ostili e degradate.

Se l’argomento in sé, con la persecuzione di un apparato statale kafkiano e repressivo, non poteva mancare di fare breccia sulle coscienze più intransigenti, bisogna dire che lo sguardo del regista riesce a fare convivere i motivi personali con la descrizione di una condizione esistenziale che diventa universale, e per questo coinvolgente. Per arrivarci Diaz lascia fuori campo per tre quarti di film riferimenti storici e geografici (limitati alla sola didascalia indicante anno e località in cui si svolge la vicenda), e satura il quadro con rumori e suoni provenienti da una natura incontaminata e matrigna, che si sostituisce alle psicologie dei personaggi, rappresentandole mediante una drammaturgia scandita dall’elemento meteorologico e climatico. In questo modo gli improvvisi cambi di temperatura, la persistenza delle piogge monsoniche, i flutti del mare in tempesta e le inestricabili ramificazioni della foresta pluviale, diventano altrettante manifestazioni dello stato d’animo dei protagonisti. A venire a galla è la particolarità del contesto, segnalato dalle abitudini della dimensione domestica e lavorativa, così come il senso d’afflizione di un’umanità dolente che sembra farsi colpa della propria condizione. E se, da una parte, il regista si sforza di guardare ai personaggi da un punto di vista oggettivo (tranne un primo piano ravvicinato su due volti di donna, le riprese avvengono in campo lungo e lunghissimo) dall'altra interviene con un atto politico che gli restituisce la dignità che il potere gli ha tolto. In questa maniera si spiegano per esempio i passaggi che si soffermano sugli spasmi della ragazza cerebrolesa. Avulsi da qualsiasi voyerismo, peraltro allontanato dalla compostezza della messinscena, il regista cambia gerarchie sociali e ordine d’importanza ai fatti della Storia, portando in primo piano le vite degli ultimi, e relegando ai margini quelle di chi è abituato a stare in prima fila. Alla fine ci si sorprende ipotizzati e partecipi, dando ragione al direttore del Festival che aveva chiesto di far cadere il pregiudizio nei confronti di un’opera fluviale ma piena di senso. Contemplativa e spirituale, l'umanesimo di “From What is Before” si candida fin da ora alla vittoria del premio maggiore. (pubblicato su ondacinema.it)

Nickoftime

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