sabato, febbraio 08, 2014

ALL IS LOST


All is Lost
di J C Chandor
con Robert Redford
Usa, 2013
genere, avventura, drammatico
durata, 106'


Ci sono film radicali-per rigore espressivo, azzardo stilistico, slancio poetico- e film paradigmatici, che non innovano nulla però riescono a dire qualcosa sullo spirito dei tempi. Inserendosi nelle fratture di un quotidiano venduto sempre e comunque (ma ormai la cosa ha assunto i contorni entusiastici della disperazione malcelata) come allegro, risolto e pacificato, ne svelano la precarietà e l'utentico aspetto di tormentata transizione. E' il caso di "All is Lost", appena arrivato tra noi (titolo che, a pensarci mette, tutto sommato, di buonuomore o se non altro contrasta di primo acchitto quel senso di soffocante "pienezza" che ammorba i giorni). Vicenda questa di un uomo, vecchio, costretto al contatto con un elemento altrettanto vecchio, il Mare- e di con quanta nettezza e irriducibilità si riallacci un rapporto una volta venute meno le baldazose quanto fragili barriere che uno strumento, la Cultura nella sua forma di massima razionalità, la Tecnica, aveva eretto fra loro, al punto da arrivare a negarne l'esistenza.

Redford, uomo in fuga?, di certo naufrago, alla deriva in qualche punto remoto dell'Oceano Indiano, riannoda di forza e sul proprio corpo i fili di una corrispondenza che neanche la Tecnica -tantomeno il capitale e le merci- ha saputo surrogare con la sola quantità dei desideri. degli stimoli, degli oggetti, esauditi, assecondati, posseduti o, di contro, frustrati, repressi, mancati (i "pezzi forti" dell'armamentariato "moderno" sono i primi ad essere spazzati via dalla logica essenziale della Natura. Tradiscono, questi, sofisticatissimi e inutili, proprio nel momento del bisogno). Riscopre la solitudine laboriosa, spossante (pure inconcludente) che la Tecnica- e ancora più il capitale e le merci- hanno tentato di esorcizzare con la spensieratezza inerte, l'allegria indotta o di riporto, la "facilità" persuasiva ma inappagante.

In tal senso, "All is Lost" diventa paradossalmente davvero radicale, al di là della sua struttura formale. Ossia quando ciòè spinge l'esemplarità del suo assunto al punto di non ritorno, di una rappresentazione tanto materiale, fisica, nel suo svolgersi, quanto simbolica nella limitata, quasi rituale, reiterazione dei suoi gesti, misurati, precisi, come asciugati e rifiniti dalla prossimità con la Morte, interlocutrice che non ammette parola ma invita e predispone all'ascolto del linguaggio primo, quello circolare delle onde; quello impazionete delle tempeste che non tarderanno ad arrivare: quello muto ma incessante delle moltitudini sottomarine. Linguaggio e ordine che non ha bisogno di cambiare senza tregue meramente utilizzando il contesto in cui agisce; che nella ripetizione e nella trasformazione lenta ma costante trova il suo senso e, di fatto, si sacralizza, e a cui, riconosciuto il ruolo di matrice originaria e il legame che ad esso vincola, consegnare le parole dell'addio: "Ho lottato fino alla fine. Non sono sicuro che ne valesse la pena. Ma l'ho fatto. Mi dispiace". Perchè "la Tecnica è di gran lunga più debole della Necessità". Oh si.

TFK

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