giovedì, settembre 19, 2013

A proposito di "300"


di: Z. Snyder
con: G. Butler, L. Heady, D. Wenham


Ci sono film che sembrano fatti apposta per suscitare polemiche al di la' di meriti e demeriti reali: "300" di Zack Snyder (da poco riproposto sul piccolo schermo) e' uno di questi. Prodotto nel solco della più recente tendenza hollywoodiana di sfruttamento intensivo dell'universo supereroistico e dei comics in generale, "300", parossismo digitale applicato stavolta ad un evento storico - il disperato tentativo messo in atto al passo delle Temopili nel 480 a. C. da un manipolo di spartiati guidati da Leonida di bloccare l'avanzata dell'esercito persiano di Dario - già appena arrivato nelle sale, aveva ottenuto il duplice risultato di un buon successo di pubblico e l'alzata di sopracciglia di una consistente fetta della critica.

Ora: con quel certo sorridente candore - a meta' tra faccia tosta e sana incoscienza - che spesso contraddistingue i cineasti americani (ma non solo loro), Snyder dichiaro' più volte di aver voluto costruire uno spettacolo il più possibile aderente all'impostazione e alla struttura delle tavole dell'omonima opera di Frank Miller. Un po' la stessa (furba) motivazione addotta da Robert Rodriguez ai tempi di "Sin city", sempre su soggetto di Miller. E' di una trasposizione, pertanto, che ci accingiamo a parlare, non di un'opera cinematografica autonoma. E come sovente accade quando ci sono di mezzo le trasposizioni, crescono le diffidenze, se non le ostilità aperte, non foss'altro per l'imbarazzo che si prova al momento di stabilire fino a che punto pregi e difetti appartengono alla forma di espressione primaria o alla sua filiazione, e tralasciando l'eterna diatriba su quanto il cinema dovrebbe "dire" e non limitarsi a "trasporre". Tradizionalmente era il linguaggio a dirimere (in parte) la controversia. Si diceva: la pagina scritta/disegnata e' una cosa; il film un'altra. In realtà, l'affermazione oggi come oggi vale quasi solo in teoria, almeno se si conviene che buona parte del linguaggio cinematografico, quello d'avventura di sicuro, risulta strettamente connesso - molti dicono ormai ostaggio - all'innovazione tecnologica. Il nodo ai giorni nostri, ed e' un paradosso, e' la capacita' di "mostrare tutto", di rendere filmabile l'impossibile, al punto da spingere spesso il resto - la storia, i personaggi, le inquadrature, le scelte stilistiche - ai margini. Ed in effetti, quando si dispone di mezzi tali da rendere verosimile a colpi di software l'avanzata di un esercito sterminato, la riproduzione dettagliata (non importa quanto "falsa") di un'antica città o lo schiantarsi di una flotta da battaglia sulla costa causa un terribile mare in burrasca, la "messinscena" diventa una scommessa vinta in partenza, così come si fa secondario se non superfluo lo stare troppo a sottilizzare sull'artificio di far recitare gli attori di fronte a quinte virtuali o il ricorrere a trucchetti - questi si' triti - tipo scene in ralenti esasperato al limite del fermo immagine. Insomma: il verme e' già nella mela. Di più. Per assurdo - ma nemmeno tanto - in un contesto del genere si arriva a sospettare addirittura inutile il ruolo della trama; accadimenti, a voler essere cinici, ignorati (o malamente maneggiati, se non proprio fraintesi) dalla stragrande maggioranza di coloro che formano il bacino naturale di un film come questo (pensiamo alle "competenze storiche" dell'adolescente medio, non necessariamente americano). Ciò che conta, allora, in questa sede, il perno critico attorno a cui far ruotare le valutazioni - valutazioni in molti casi plausibili, in certi persino condivisibili me sempre, comunque, per quello che si e' detto, fuori tempo massimo, e che vanno dall'ambiguità ideologica all'enfasi guerresca sempre in bilico sul crinale di un'ottusa esaltazione della "bella morte"; da una sostanziale piattezza narrativa alla pressoché totale mancanza di spessore psicologico dei personaggi - non può che essere la "resa" visiva. E questa resa c'è, seppure a tratti, seppure condizionata dalla freddezza della "macchina". "300" dura poco più di due ore e per buona parte di esse gli occhi rimbalzano su lance e spade; incontrano i corpi seminudi e prestanti dei soldati aggrovigliati nella lotta - lordi di sangue o sporchi di terra - che hanno un loro indubbio fascino plastico, virile e animalesco, per quanto esagerato e tutto di superficie: e' la parte più "viva" del film. Qui la computer grafica pare ancora al servizio (o forse, semplicemente, e' ancora un po' in ritardo) di una serie di gesti non del tutto sequenziati, gesti "umani", cioè.

Le trame politiche in seno a Sparta, invece, i momenti di rifiato tra un'offensiva e l'altra, il paesaggismo ipercromatico sospeso tra idealizzazione di un tempo arcaico, brutale ma puro e un cupo incombere di destini ineluttabili, ma così pure la gran parte degli stessi dialoghi, operano come meri riempitivi - accidenti, difetti di programmazione, verrebbe da dire - per cui la tecnica digitale la fa veramente da padrona e acuisce il timore che il modello classico di "narrazione avventurosa" sia sul serio morto e sepolto o, quanto meno, sotto tenda ad ossigeno... Si e' parlato a proposito di "300" di "colonizzazione dell'immaginario". Ebbene, se colonizzazione esiste, essa appartiene alla Modernità nel suo complesso. Ha iniziato la sua marcia diversi decenni fa e ha trovato nel Cinema un alleato potente, magari, ma tutto sommato accessorio. La fabbrica dell'intrattenimento non e' che una delle tante facce di un mondo che ha scelto (?) di affidarsi alla tecnologia, con tutto ciò che di promettente e di oscuro questo comporta.



TFK

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