venerdì, agosto 23, 2013

66° Film Festival di Locarno: cartolina finale


"Quando giro un film evito qualsiasi tipo di comunicazione. Non parlo con gli attori ed ignoro i tecnici. Da quel momento in poi ogni cosa che faccio dipende da Dio, non da me”. Basterebbero queste parole rilasciate da Albert Serra al termine della proiezione di “ Historia de la meva mort” vincitore del 66 Festival Film di Locarno per capire la consistenza di una scelta, che la giuria capitanata da Lav Diaz ha indirizzato dalle parti di un cinema stravagante e criptico. Individuate come nemico da sconfiggere, comprensibilità ed empatia sono state relegate in secondo piano con il premio alla regia assegnato al coreano Hong Sangsoo per le deliziose schermaglie di “U ri Sunhi”, e quello speciale della giuria andato alla commovente confessione di “E Agora?Lembra – me” percorso autobiografico di malattia ed amicizia realizzato dal portoghese Joaquim Pinto. Ancora più indietro, quasi a cancellarne il tripudio generale dimostrato con l’ovazione di dieci minuti ricevuti dalla platea del festival “Short Term 12” dell’americano Destin Cretton, storia di gioventù bruciate omaggiata dal premio per la migliore attrice assegnato a Brie Larson, meritatamente affiancata al collega Fernando Bacilio ed alla maschera di muta sofferenza  da lui consegnata al protagonista di “El mudo” dei fratelli Vega, thriller esistenziale di una falsa indagine ambientata nel Cile dei nostri giorni. Ignorato dal palmares ufficiale il cinema italiano, a parte la generosa presenza dello splendido sessantenne Sergio Castellitto (sua la Masterclass più bella) ha fatto parlare di se più per le polemiche suscitate dai contenuti che per i meriti comunque presenti nel lavoro di Yanikian/Lucchi e di Pippo Delbono. Riportando a galla alcune delle pagine più violente della nostra storia (il regime fascista e gli anni di piombo) “Pays Barbare” e “Sangue” sono le tracce di un cinema costretto a ricercare altrove (rispettivamente Svizzera e Francia) i finanziamenti necessari a non lasciarsi imbavagliare da luoghi comuni ed ipocrisia, per mostrare le facce (Mussolini e Senzani) di una ferita che continua a sanguinare preamboli di morte. Ma quella di quest’anno è stata anche la prima volta di Carlo Chatrian, direttore minimalista e cinefilo subentrato in corso d’opera, capace di portare a casa il risultato con un’offerta  rivelatasi mediamente buona, ma senza le punte di diamante che ci si poteva aspettare. In un concorso internazionale variegato di generi e formati la selezione ha segnalato il ritorno ad un cinema fatto di storie, pensiamo alle opere provenienti dall’oriente (Tomogui del giapponese Shijno Aoyama è stata una delle sorprese più belle), ma anche a film più tradizionali come “Tonnere” e “Gare du Nord” ed “Une Autre vie” alfieri del cinema francese che qui però non ha particolarmente brillato. Una restaurazione accompagnata dal trionfo dei sentimenti, accolti un po’ ovunque –  tanto dal pubblico generalista della Piazza Grande che da quello militante del concorso e delle sezioni – da un entusiasmo in qualche caso persino eccessivo. Pensiamo all’edulcorato ed inconsistente “Gabrielle” di Louise Archambolt, premiato dal pubblico della Piazza,  ma anche alle storie d’amore di “Mr. Morgan Last Love” con Michael Caine, e di quella fantascientifica e distopica di “Real” dell’altro giapponese Kiyoshi Kurosawa, a riprova che il segno dei tempi per essere tale deve essere espressione di una variabile umana che il cinema farà bene a non dimenticare.
(pubblicato su ondacinema.it/speciale 66° Festival Film Locarno)

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