lunedì, ottobre 01, 2012

Woody

Woody
regia di Robert B. Weide

A chi decidesse di realizzare un documentario su un regista così famoso da essere teorizzato e discusso per oltre quaranta anni, con analisi spinte fino all’eccesso quando hanno incluso aspetti privati della sua vicenda umana per far tornare i conti di un arte tanto leggera quanto inafferrabile, si offrirebbero due opportunità: quella di realizzare un opera celebrativa a carattere divulgativo oppure, in alternativa, tentare di approfondire queste due componenti con sguardo rinnovato ed inedito. Robert B. Weide, autore di "Woody" presentato come evento speciale all'ultima edizione del festival di Cannes, ci illude sulle sue possibilità, riuscendo inizialmente ad infrangere la distanza che separa l’uomo dall’artista.
Così gli esordi di un talento precoce ma già determinato assumono la forma di immagini di repertorio in bianco e nero rubate ai localini off del village dove Allen imparò il mestiere esibendosi come stand up comedian, e poi con qualche scampolo prelevato da talk show ante litteram in cui il ragazzo veniva invitato per la sua capacità di improvvisare battute talmente esilaranti da fargli guadagnare ancora studente il primo contratto di lavoro in un giornale. 

Premesse accompagnate da testimonianze familiari come quelle della madre ancora una volta castrante nel rimproverare al figlio una freddezza eccessiva, e della sorella, diventata poi una sorta di factotum del regista, ed infine, meraviglia tra le meraviglie, inserti che ci permettono di violare il tempio della creazione alleniana, con sequenze girate all’interno dello studiolo in cui Allen scrive le sue sceneggiature, e dove trovano posto la mitica Olimpia, la macchina da scrivere che da sempre mette in fila le parole del regista, e gli strumenti di un lavoro dal sapore artigianale (Allen non fa uso di pc), con taglierini e colla indispensabili per una sorta di montaggio a mano che assembla estratti cartacei di scene e dialoghi sopravvissuti alla selezione operata dall'autore. 

E poi ancora una passeggiata per le strade del quartiere nelle quali ritroviamo i luoghi dell’infanzia e della prima giovinezza come la casa natale abitata da una famiglia numerosissima, il cinema, oggi trasformato in  multisala, ed anche la scuola frequentata con scarso entusiasmo ed a rischio della propria incolumità. Passaggi interessanti ma rapidissimi, appena il tempo di mostrarli e subito abbandonati per la necessità di fare i conti con una produzione cinematografica tanto bulimica quanto ricca di titoli indimenticabili. Una sfida difficile ma non impossibile se Weide avesse applicato alla quantità di materiale disponibile un punto di vista capace di decostruire il cinema di Allen secondo categorie cinematografiche ed esistenziali.


Ed invece scegliendo di raccontare in maniera cronologica e con un unico schema (le scene dei film si alternano agli interventi di chi vi ha partecipato) "Woody" si appiattisce in una narrazione scontata e ripetitiva. Weide privilegia specialmente la prima parte di carriera, quella dei grandi film (“Io e Annie”(1977), “Manhattan”(1979), “Stardust Memories”(1980), “Anna e le sue sorelle”,1986)mentre mischia molto e fa vedere poco della seconda, quella segnata dal divorzio scandaloso da Mia Farrow - affrontato con molte omissioni - e dei film girati all’estero. Se “Woody” è efficace nel far emergere l’attitudine di un regista che ha evitato di adagiarsi sugli allori, di seguire l’onda del consenso cambiando quasi sempre rotta all’indomani di un grande successo - ad " Io ed Annie" e "Manhattan" seguirono rispettivamente produzioni totalmente differenti come "Interiors",1978 e "Stardust Memories"- è invece incapace di indagarne il processo creativo, di approfondire il rapporto tra l’artista e la sua creazione, suggerendo la presenza di uno forte  componente autobiografica - più volte nel corso degli anni il regista ha smentito il collegamento tra la sua vita e quella inventata per i suoi personaggi - quando all’inizio “Woody” legittima i ricordi del regista con sequenze di film (“Radio Days”,1987) che sembrano la trascrizione per immagini di quelle affermazioni, oppure riducendo gli aspetti tecnici del suo mestiere alla sola collaborazione con Gordon Willis, il grande direttore della fotografia che “insegno ad Allen il modo di posizionare la macchina da presa”, dimenticandosi di contribuiti altrettanto importanti come quelli di due maestri come Sven Nickvist, fedelissimo di Bergman (“Fanny ed Alexander”,1982)e di Carlo De Palma, sodale di Antonioni ("Deserto Rosso",1965). 

Insomma un lavoro, quello di Weide, preoccupato di confezionare il giusto tributo al regista che abbiamo imparato a conoscere, ma che non aggiunge nulla a tutto quello che avremo voluto sapere su di lui e che invece continuiamo ad ignorare.

Nessun commento: