martedì, agosto 28, 2012

New Hollywood (3): Incontri ravvicinati del terzo tipo


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"Incontri ravvicinati del terzo tipo"/"Close encounters of the third kind"
USA, 1977
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S. Spielberg
Con: R. Dreyfuss, F. Truffaut, T. Garr, C. Guffrey



Ciò che si racconta e' subito detto: in diverse parti del pianeta compaiono
all'improvviso segni che prefigurano la possibilità di un contatto con una
civiltà extraterrestre. Individui diversi, provenienti dai posti più disparati,
convergono ai piedi di una sperduta montagna nel cuore degli Stati Uniti, certi
che la propria vita stia per cambiare.
Uno di questi e' Roy Neary (uno spassoso e frenetico Richard Dreyfuss),
elettricista di provincia, ingenuo e allegro, amante dei cartoni animati, padre
squinternato con figli molto più svegli di lui (altro tratto tipico di
Spielberg) e con una consorte Ronnie (Teri Garr) più madre che moglie. Una
volta avuto il suo di "segno", Roy non esiterà a fare letteralmente a pezzi la
sua casa e la sua esistenza ordinaria per inseguire l'"ispirazione"
materializzataglisi davanti in via definitiva una sera a cena, sagomando a
colpi di forchetta la massa informe del suo pure'.
Giocato sulla rincorsa continua tra attesa e svelamento in un crescendo da
rivelazione messianica, il film non cede mai alla speculazione filosofica
spicciola, alla concettualizzazione profonda: Roy e l'altro centro del film, il
bambino Barry (Cary Guffrey), chiamati da forze irresistibili, sanno solo che
devono andare. Sono fiduciosi, non hanno paura. Coetanei nello spirito (Roy e
Barry sembrano quasi più l'uno il fratello maggiore dell'altro che un adulto
sposato e un bambino di pochi anni), superano le contraddizioni e i quesiti
immani impliciti nell'incontro di due civiltà "aliene" tra loro, nello slancio
entusiastico di una condizione genuinamente infantile, pre-razionale, pre-
logica, che addirittura non abbisogna di parole per compiersi (anche
l'Autorita, incarnata dai militari e dagli scienziati che coordinano le
operazioni in vista dell'"arrivo", elaborano un sistema di comunicazione
affidato a gesti elementari della mano e ad una limitata serie di suoni da
ripetere in sequenza), come se il disperato bisogno di avere un interlocutore -
dialogare con se stessi, con gli altri, con l'universo - la necessita' di
stabilire un legame, fosse così impellente, così radicato nell'animo umano e
non ulteriormente posticipabile, da rendere accessorio e persino dannosa la
presenza dii una qualunque forma di linguaggio strutturato, complesso, quindi
di per se' ambivalente e, peggio, equivocabile.
Al grado zero dell'espressione, non resta che il concerto di lampi soffusi e
il ballo morbido delle astronavi; incrociare lo sguardo con una altro te stesso
venuto da chissà dove e tendere la mano.
La fantasmagoria sensoriale di un film innanzitutto ancora bellissimo-da-
vedere come e' "Incontri...", non può prescindere da un apparato tecnico
conosciuto nei suoi meandri più intimi e calibrato al dettaglio (punto questo
della maestria tecnica sempre poco riconosciuto a Spielberg; così come
l'eccezionale naturalezza, ammirata da uno come Kubrick che ne era un vero e
proprio studioso, nella costruzione delle scene di massa).
Alla supervisione degli effetti speciali affidata al "kubrickiano" Douglas
Trumbull e a Roy Arbogast dobbiamo la magnificenza delle architetture
"impossibili" dell'astronave madre, il leggendario "lampadario" che arriva a
roteare completamente su se stesso sino a levitare a qualche metro da terra
davanti agli occhi esterrefatti dei privilegiati ammessi al primo "contatto". A
operatori del calibro di Vilmos Zsigmond, John A. Alonzo e Laszlo Kovacs si
ascrive l'incanto blu cobalto del cielo stellato che all'improvviso si anima di
punti di luce stranamente concordi nelle loro traiettorie e l'inimitabile
bagliore pastoso - una sorta di oro in polvere - del deserto sconvolto da una
tempesta di sabbia durante il prologo.
Si fa strada, in conclusione, l'ipotesi - l'utopia, per certi versi - di una
"fantascienza adolescente", che da questa deriva tutte le incongruenze e le
presunzioni ma pure e soprattutto gli slanci, le curiosità, i gesti sovversivi.
Prova ne e' la presenza, davvero preziosa e molto più che simbolica, di
Francois Truffaut, raro esempio di vero "adolescente adulto", nei panni del
capo delegazione scientifica Claude Lacombe, l'unico a "sentire" le ragioni
interiori di Roy, fino a sussurrargli nel modo più aperto, fraterno e limpido:
"Io la invidio", perché davvero compartecipe della stessa emozione, dello
stesso modo stupito, appassionato e irrequieto di stare al mondo, di affrontare
la vita (il cinema) tanto da far pensare - perché e' bello e giusto pensarlo, a
questo punto - che guardare "Incontri..." e' come guardare Antoine Doinel che
una volta giunto in riva al mare alza gli occhi al cielo.
seconda ed ultima parte


(di TheFisherKing)

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