mercoledì, marzo 09, 2011

Fair Game

Fair Game


Le bugie che portarono alla guerra irachena e la voglia di un attore di rappresentare quella parte di America che provò a ribellarsi: ingredienti di un cinema impegnato diluiti nella forma di un prodotto di consumo che se non nella sostanza si avvicina almeno nello spirito al desiderio di rappresentare il proprio tempo e gli uomini che ne fanno parte.

Ed in questo senso il film di Doug Liman non omette niente, partecipando lo spettatore di nomi e cognomi ed agevolando la lettura delle vicende piuttosto complicate che segnarono la vita di Valerie Plam, agente della Cia sottocopertura la cui copertura fu rivelata pubblicamente dall’amministrazione Bush come risposta ad un articolo in cui il di lei marito smentiva l’esistenza di una minaccia nucleare da parte dell’Iraq.

Il film segue la vicenda in maniera cronologica, privilegiando il punto di vista di chi si deve difendere dall’attacco del Leviatano: supportato dai resoconti scritti di chi quella storia la visse veramente Doug Liman non riesce ad evitare certa enfasi retorica soprattutto nell’esposizione troppo sintetica che non deve omettere nulla delle ragioni degli uni e degli altri, oppure espedienti troppo conclamati come quelle delle cene amicali inserite nel film in maniera sistematica per fornire attraverso le discussioni estemporanee il polso di un opinione pubblica altrimenti emarginata dalla condizioni di isolamento che caratterizzò la vita dei due coniugi.

Interpretato con inaspettata sobrietà da un Sean Penn che sembra volersi rifare alla vocazione liberal che fu già di Redford/Hoffman in “Tutti gli uomini del presidente” e che nell’attore, presente nei luoghi della guerra per sostenere i diritti del popolo inerme e vittima predestinata dei bombardamenti americani, assume un plus valore di assoluta credibilità, e con una Naomi Watts professionalmente ineccepibile, Fair game non fa fatica a deludere politologi ed appassionati per la mancanza di approfondimento, così come sul piano strettamente cinematografico tutti coloro che di fronte a tali ingiustizie invocano crociate e furori calvinisti.

In realtà nella paura di risultare fazioso il film raffredda il pathos, cercando di privilegiare l’evidenza dei fatti. Non sempre gli riesce, soprattutto nel versante privato in cui prevale una drammaturgia di facile consumo, costruita contrapponendo l’onestà dei protagonisti al malaffare del mondo esterno.

Difetti che solo in parte posso spiegare la disaffezione del pubblico addestrato a ben altra rozzezze e che invece deve essere ricercata nello scarso appeal cinematografico del tema (la dietrologia delle nuove guerre non sono mai state premiate al botteghino) e nella scarsa disponibilità dei due interpreti a flirtare con uno spettatore che ama essere vezzeggiato.

Ciò nonostante il film è migliore dell’accoglienza ricevuta e merita almeno una visione.

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