giovedì, dicembre 30, 2010

8 Million way to die

8 Million way to die
di H. Ashby


Una città tentacolare e la voce di una fine anticipata. I numeri della violenza snocciolati dai burocrati del crimine danno parola all’indifferenza di una città ridotta ad un grumo di strade perdute.
La sequenza iniziale, panoramica dall'alto di un arteria stradale in overdose di clienti con commento fuori campo a definire lo spazio d’azione di una scena altrimenti anonima, sono il biglietto da visita di un film che tenta di mettere insieme il compendio esistenziale di Hal Ashby un autore in lotta con la vita, e le regole di un genere, la crime story, che di lì a poco e con differenti nomi (neo noir) sarebbe diventato la forma di cinema più adatta a rimettere insieme i pezzi di un mondo andato in frantumi.
Non è difficile infatti riconoscere nel percorso esistenziale di Matt Scudder, interpretato da un Jeff Bridges, un ex poliziotto che cerca di redimersi aiutando una prostituta a liberarsi dal proprio carnefice, i segni di una biografia fortemente segnata dall’uso di additivi, nel film la tossicodipendenza diventa alcolismo, e da una diversità difficilmente assimilabile dal sistema-dopo la sua fuoriuscita Scudder continua a comportarsi come un poliziotto ma lo fa a modo suo e di fatto il desiderio di rientrare nei ranghi finisce in secondo piano rispetto alle urgenze della vita - cosi’ come le convenzioni del genere, riassunte nella struttura di un racconto circolare in cui l’identità perduta e poi ritrovata è il pretesto per un percorso attraverso i gironi di un inferno che ha il profumo di una città dal ventre molle.
Certo il paragone con il resto della filmografia del regista fa difetto alla sua ultima opera, soprattutto perché la visione caustica della realtà e la contagiosa ingenuità dei suoi personaggi più famosi (Harold e Maude) è qui sostituita da un pessimismo spalmato a piene mani nelle rispettive esistenze dei personaggi coinvolti nella vicenda, invischiati in una solitudine dorata ma letale (le due prostitute che per differenti ragioni cambieranno la vita di Scudder, ma anche Maldonado, trafficante di droga rinchiuso in una torre d’avorio piena di cadaveri per non parlare del protagonista principale, abbandonato dalla famiglia e costretto ad elemosinare l’attenzione della figlia) ma soprattutto da una sensazione di immobilismo che non permette a nessuno di tirarsi fuori dalla propria infelicità.
Ashby è bravo ad inserirsi negli spazi della crisi, nelle frazioni di tempo in cui bisogna decidere se vivere o morire. È lì, in quella penombra di sguardi e di silenzi, di corpi fiaccati dal tempo e dalle abitudini che emerge il talento di un regista abituato a lavorare per gli attori. E’ per questo che pur in un panorama rappresentato con molte approssimazioni (i ruoli antagonisti rimangono poco caratterizzati ed anche gli ambienti sono ridotti ad un realismo di facciata), non si può non mettersi dalla parte di Scudder, interpretato con sofferta partecipazione da Jeff Bridges, cavallo di razza piegato ma non abbattuto, con le scarpe bucate ed i vestiti da due soldi, eppure regale nella sua dignità fatta di poche parole e molto sentimento, pronto a riconoscere negli altri il riflesso di se stesso e per questo a coinvolgersi senza mezzi termini.
Anima e cuore di un film diseguale ma sincero, sfuggito più volte di mano al suo artefice per motivi produttivi ed uscito nelle sale americane solamente in versione video.
Hal Ashby è stato una figura di riferimento del cinema americano degli anni '70, ma la sua filmografia seppur caratterizzata da successi importanti (Coming home, Being there, The last detail) è passata sotto silenzio. A rimanere più impressi sono stati la vita da outsiders ed i comportamenti fuori dalle righe.
Sean Penn ha dedicato a lui ed a John Cassavetes "Indian Runner" il suo esordio cinematografico. Un accostamento che gli rende giustizia.

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