lunedì, settembre 20, 2010

THE AMERICAN

The American
di Anton Corbijn.


Un animale in via d’estinzione, come la farfalla su cui si sofferma l’attenzione del protagonista, fin lì impegnato a rispettare le regole di un letale protocollo ed ora rapito dalla sorpresa di quell’inaspettata apparizione: un momento breve ma significativo nell’economia di un esistenza altrimenti cristallizzata sui clichè di una spietata indifferenza e sintonizzata sui toni oscuri della vita; barlumi di un umanità continuamente risucchiata dal controllo di sé e delle cose. Jack è un killer che cammina nell’ombra della sua stessa morte: lo si capisce dalla prima scena, con una resa dei conti tanto crudele quanto necessaria a delineare un percorso emotivo scevro da qualsiasi romanticismo e destinato a consegnarci una figura eticamente lontana da qualsiasi ipotesi di redenzione.

Nel far questo il film rinuncia alla costruzione di un background esplicativo - la nazionalità rimarrà fino alla fine l’unico dato di una biografia per il resto inesistente- disseminando qua e là tracce di un passato che pesa sul presente con frasi epitaffio del tipo “non credo che Dio sia interessato a me”oppure cospargendo di interminabili silenzi i tormenti di un uomo braccato da un nemico invisibile. Costretto a rifugiarsi nelle montagne di un Abruzzo restituito nella sua aspra bellezza e perfettamente funzionale ad illustrare un esilio privo di attrazione, Jack troverà il tempo di intrecciare un legame di amicizia con il parroco del paese ed iniziare una relazione con una prostituta a cui Violante Placido dona la generosa bellezza delle sue forme.

A suo agio con personaggi “terminali” e con le storie senza uscita, Corbijn conferma le qualità messe in mostra nell’esordio (Control) regalando al film un comparto visivo ricco di suggestioni, non solo per la scelta di un paesaggio anomalo, lontano dalle riproduzione stereotipate di certo cinema americano, ma anche per la capacità di rendere gli stati d’animo del suo protagonista attraverso un registro stilistico che riesce a spaziare dal dettaglio fenomenologico, con immagini, soprattutto gli interni dei bar e le passeggiate/pedinamenti nelle stradine del paese, che sembrano rubate ad un ipotetico privato, a quello oggettivo, impiegato nelle riprese in cui Jack mette a punto l’arma commissionatagli da una donna misteriosa, o quando si tratta di realizzare senza alcun artificio spettacolare i momenti topici del film, quelli in cui è la violenza a incidere sul destino degli uomini. Una manifestazione di talento tanto efficace quanto inutile a causa di una scrittura troppo debole – soprattutto nella parte finale, dove la sceneggiatura invece di tirare le fila si slabbra con una serie di situazioni improponibili- e per di più viziata da un presupposto, quello dello stratagemma messo in piedi per sottrarre Jack a chi lo vuole morto , che a conti fatti, e senza svelare dettagli di una trama già così piuttosto prevedibile, si rivelerà del tutto inconsistente. Ciò nonostante il film non mancherà di soddisfare le ammiratrici dell’attore americano ancora una volta impegnato in un personaggio lontano dall’immagine guascona e modaiola che lo ha reso famoso.

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